Quando la Nazionale non si è qualificata al Mondiale si sono sprecate tante belle parole, sono stati lanciati programmi di riforme, proclami di grande cambiamento.
E poi?
Zero, non si è fatto nulla e il movimento calcistico italiano continua a essere in grave difficoltà a livello organizzativo, di gestione e programmazione.
La realtà è che se non programmi poi piangi quando ti capitano i disastri sportivi.
Il problema è che qui da noi l’unica cosa che sappiamo fare è cercare un capro espiatorio.
E non esiste che il Gian Piero Ventura di turno sia additato come l’unico colpevole, esiste invece un sistema deficitario in tanti aspetti, prima di ogni cosa a livello di mentalità e di formazione degli allenatori.
In Germania dopo i mondiali del 2006 hanno programmato una reale rivoluzione tecnica a tutti i livelli: i centri di formazione sono diventati una priorità e hanno investito per monitorare costantemente tutti quelli che giocano a calcio.
Non solo i professionisti o i vivai dei clubs più importanti, intendo proprio tutti, anche i dilettanti.
Perché hanno capito che anche nei campionati minori ci sono risorse, ma vanno per prima cosa individuate, poi valorizzate.
L’input per un progetto del genere, però, deve partire da una federazione forte, strutturata, con degli obiettivi e la forza di implementarli a tutti i livelli.
Bisogna studiare i dati e fare un piano che non può e non deve essere a breve termine; ci deve essere qualcuno che dica: “tra cinque (o anche dieci) anni dobbiamo avere un modo di lavorare comune a tutti, un modo di proporre calcio e di insegnarlo. La scuola allenatori deve essere indirizzata a formare, seguire, valutare e controllare coloro che sono davvero la prima pietra della crescita di un giocatore e, di conseguenza, di tutto il movimento”.
Serve una sorta di controllo per gli allenatori, perché oggi chiunque può fare un corso a Coverciano, prendere il patentino e arrivederci.
Non c’è più un dopo, se non i corsi di aggiornamento mirati più a far cassa che altro.
Se gli allenatori non hanno un organo superiore che da un lato dia sostegno e strumenti per migliorare e dall’altro sia attento alle problematiche e a correggere i loro errori, come possono migliorare?
Ma la valutazione non può essere solo un’occhiata alle classifiche: “questo ha vinto, è bravo, questo è arrivato ultimo, è un incapace”.
Se il metro di giudizio si basa solo sui risultati, gli allenatori continueranno, in serie A, ma soprattutto nei settori giovanili, a bypassare tutta una serie di insegnamenti in funzione della loro ambizione personale.
A 15,16 e 17 anni tanti ragazzi, magari promettenti, abbandonano il calcio e sapete perché?
Perché sono già prosciugati dalle richieste degli allenatori.
Perdono la passione, perdono tutto.
Bisognerebbe investire sui singoli, non sulla squadra.
Negli anni qualche viaggio/studio l’ho fatto e all’estero lo sviluppo del calciatore è infinitamente più importante che vincere una partita o un torneo.
In Olanda o in Spagna si prova a dare ai ragazzi i mezzi e le conoscenze che gli permetterannoforse un giorno di diventare un professionista.
Si cerca di fare in modo che abbiano una cultura calcistica, che siano preparati a questo mondo.
Si forma l’uomo, il singolo uomo più che il collettivo.
Nei settori giovanili si deve lasciare spazio al divertimento, trovare un modo di giocare che sia bello da vedere, ma anche bello da praticare.
Non serve fossilizzarsi sul vincere sempre, ma invece rimboccarsi le maniche per far crescere ragazzi con un bagaglio tecnico, tattico, mentale e di cultura del lavoro.
Per la pressione del campionato e delle pagelle c’è tempo.
In Italia questo è un problema culturale, un modo di pensare difficile da estirpare, ma forse vale la pena tentare e agire su chi davvero ha in mano le redini del futuro, i tecnici.
Servono risorse, certo, e persone competenti che possano seguire i tantissimi allenatori che escono da Coverciano.
Impossibile?
Proviamo a monitorare solo le società professionistiche, per iniziare: sono venti in serie A e altrettante in B.
Un numero accettabile a cui poter chiedere: quali allenatori avete nel settore giovanile?
Come li fate lavorare?
Che filosofia volete mantenere?
Quali sono le vostre linee guida?
Quali sono i vostri obiettivi?
Partiamo da qui.
Nel corso di una stagione li devi seguire tutti, ma non guardando ogni tanto come va la squadra sullo smartphone.
Si va agli allenamenti in settimana, alle partite alla domenica, si parla con lo staff.
Poi si valuta, e nel caso, si opera per correggere la rotta.
In Italia non esiste nulla del genere, ma è fattibile e credo necessario.
Comunque non vorrei far passare l’impressione che sia tutto da buttare.
Se a livello politico e di visione non riusciamo ad andare più in là del nostro naso, in realtà a livello tecnico l’Italia non è così in difficoltà come si vuol far credere.
Le Nazionali giovanili negli ultimi anni hanno ottenuto grandi risultati e la Nazionale maggiore i valori tecnici li ha, idem i calciatori forti.
La Nazionale è solo la punta di una piramide fatta da milioni di persone che giocano e amano il calcio e trasformare il modo di scendere in campo è la cosa più positiva.
I giocatori li abbiamo, ora bisogna solo convincerli che c’è una strada giusta da percorrere, quella di voler essere protagonisti e non solo speculativi.
Ci sono squadre e giocatori che hanno vinto poco o nulla, eppure ti rimangono dentro.
Ricordate il Napoli di Sarri?
Non ha vinto nulla, ma ha sempre dato un senso al suo gioco e il senso era quello di proporsi, divertire e far divertire.
Jurgen Klopp disse: “noi giochiamo a calcio, non salviamo vite, non piantiamo alberi, non operiamo, l’unica cosa che sappiamo fare è giocare a pallone e visto che il calcio è fatto per divertire la gente, se non giochiamo per divertire, cosa giochiamo a fare?”
Sarà un pazzo, ma io ci trovo un’assoluta verità.
Anche questo è un modo di pensare sbagliato tipicamente italiano: le squadre medio piccole che contro le grandi fanno le barricate.
Ho vissuto un’esperienza ad Amsterdam e chiunque in quel periodo andasse a giocare all’Amsterdam Arena (dal 2018 intitolata al leggendario Johan Cruijff) provava a giocarsi la partita, squadre neopromosse comprese.
Succede che l’Ajax non riesca a uscire dalla propria metà campo per 45 minuti, ne ho viste più di una di partite così, non sto sognando.
Poi magari finisce 6-1, però lascia un gusto diverso, sia agli spettatori che ai giocatori in campo.
Mi immagino i calciatori di una piccola squadra che vanno a giocare ad Amsterdam, davanti a 55mila persone e si, hai perso, ma ti rimane un certo romanticismo dentro sapendo che ci hai provato.
La bellezza di non aver avuto paura.
Tanto, anche se difendi 90 minuti, contro l’Ajax di allora perdevi lo stesso 6-0.
Roberto Nova